Con la sentenza n. 2231 del 2018 il Consiglio di Stato ha risposto positivamente.
Un imprenditore impugnava la sentenza di primo grado che respingeva il ricorso da quest’ultimo esperito avverso il provvedimento interdittivo del Prefetto.
In particolare, l’autorità prefettizia aveva motivato l’informativa antimafia negativa emessa nei confronti dell’imprenditore alla luce della vicinanza di quest’ultimo con una cosca mafiosa, la quale, a detta della amministrazione procedente, influiva sulla gestione dell’attività economica del ricorrente.
Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello, confermando così la sentenza del Tar e , quindi, il provvedimento impugnato, in base alle seguenti considerazioni.
Come è noto, l’istituto della informativa antimafia costituisce una forma di documentazione antimafia, ovvero un provvedimento amministrativo di natura cautelare e preventiva, previsto dal legislatore in seno al D.Lg 159 del 2011 (Codice Antimafia), al fine di evitare che imprese colluse con la criminalità organizzata possano intrattenere rapporti con la Pubblica Amministrazione.
La disciplina in esame si fonda sul contemperamento di vari principi costituzionali: da un lato, la libertà di iniziativa economica privata e la presunzione di non colpevolezza; dall’altro, la tutela dell’ordine pubblico e il buon andamento della p.a.
Nello specifico, l’articolo 84 comma 3 del codice antimafia prevede che “L’informazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 91, comma 6, nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4“.
Il comma 4 dello stesso articolo, invece, contiene un elenco di circostanze concrete da cui può ricavarsi la vicinanza dell’impresa con associazioni mafiose (situazioni che, per la giurisprudenza consolidata, non costituiscono un numerus clausus). A titolo esemplificativo, possono citarsi provvedimenti cautelari o sentenze di condanna anche non definitive per taluni reati e sostituzioni negli organi sociali poste in essere al fine di eludere la normativa antimafia.
Orbene, data la carenza di tassatività della disposizione, l’effettiva portata della norma è rimessa all’interprete.
A tal proposito, il Supremo Collegio ha evidenziato come le disposizioni in tema di interdittiva antimafia vadano interpretate nel senso che la Prefettura debba porre a base della propria valutazione discrezionale l’accertamento di fatti che conducano a al riscontro di tentativi di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’attività economica.
In particolare, con riferimento allo svolgimento dell’istruttoria, il Consiglio di Stato afferma che tale esame vada svolto alla luce del criterio del “più probabile che non” e non di quello (proprio della repressione penale) “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”: la finalità del provvedimento de quo non consiste nell’applicazione di una sanzione penale e/o nell’accertamento di un fatto di reato, ma poggia su un diverso presupposto, ossia sulla pericolo che le associazioni criminali di stampo mafioso si aggiudichino delle commesse pubbliche.
Ancora, quanto agli elementi valutabili dall’amministrazione ai fini della decisione, il Giudice Amministrativo afferma che possono essere prese in considerazione le circostanze più disparate, che appaiano rilevanti alla luce del funzionamento del fenomeno mafioso, come –ad esempio– le dinamiche familiari di connivenza e/o timore reverenziale.
Nello specifico, il Giudice Amministrativo afferma che: “Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione“.
Invero, nella fattispecie concreta, l’influenza della associazione di stampo mafioso sull’impresa individuale del ricorrente era ampiamente corroborata da più elementi: quest’ultimo era stato dipendente della ditta del coniuge di un soggetto che, a sua volta, era stato destinatario di una informativa negativa e rispetto al quale risultava incontrovertibilmente la vicinanza con una cosca mafiosa.
Per questa ragione l’appello è stato rigettato.
D.ssa Ornella Mineo Avv. Vittorio Fiasconaro